Congiuntura Economica Abruzzese n. 4/2014
La lunga durata della crisi rischia di produrre effetti permanenti, che rendono più difficile superarla, e la fanno avvitare su sé stessa. È difficile, e lungo, far nascere l’industria, ma se essa scompare è impossibile farla rinascere. L’Italia è la seconda potenza industriale europea e uno dei principali produttori manifatturieri del mondo, e grazie a ciò finora ha tenuto certamente meglio degli altri paesi periferici.
Rispetto al 2008 il valore del Pil reale in Abruzzo è caduto dell’11%.L’arretramento abruzzese è stato più sensibile di quello medio nazionale (-8%), influenzato da note e storiche caratteristiche della sua struttura economica: dalla contenuta proiezione internazionale (che consente solo in parte di compensare il calo della domanda interna)
alle limitate capacità di ricerca e innovazione (che non permettono di concentrare le risorse nei prodotti e nei servizi a più alta crescita).
I paesi dell’Europa meridionale stanno soffrendo molto di più la crisi.
Se si prendono i dati Eurostat dell’indagine sulle forze di lavoro, si vede che fra il 2008 e il 2013 l’occupazione nell’industria manifatturiera europea si è contratta di circa l’11%. Ma in Germania la caduta è molto minore, intorno al -5%, ed è relativamente contenuta anche nei paesi che ormai fanno parte di un unico sistema produttivo in Europa Centrale, prevalentemente organizzato intorno alle imprese tedesche: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca. Ben altri numeri nell’Europa periferica: l’occupazione industriale si è contratta del 39% in Grecia, del 27% in Spagna, del 16% in Irlanda.
L’Italia e con essa l’Abruzzo, grazie alla forza del loro tessuto industriale, si collocano a metà strada (-10%), ma con un andamento peggiore nel resto del Mezzogiorno. La manifattura resta ancora oggi il cuore dell’attività economica: in Abruzzo, nel 2013,
ha un valore aggiunto pari a oltre 5 miliardi di euro, con un contributo al totale del 23%, superiore a quello medio del paese.
Come mostrano anche i dati più recenti della nostra congiuntura manifatturiera, in questi ultimi anni hanno tenuto meglio le imprese di maggiori dimensioni, in grado di finanziare processi innovativi e lavorare sull’estero, e quelle inserite in catene del valore distrettuali,
o, più spesso, internazionali. Le previsioni disponibili, caratterizzate da un elevato grado di incertezza, non permettono di ipotizzare una ripresa vivace a breve, che permetta in un tempo relativamente limitato di recuperare le posizioni perdute.
È impossibile immaginare una ripresa delle economie dell’Europa Meridionale senza una significativa base industriale. Non bisogna abbandonarsi al catastrofismo ma c’è un dato di realtà da tenere bene in conto: se le dinamiche sopra evidenziate non si
invertono si rischia di compromettere seriamente il futuro. Questa consapevolezza dovrebbe agire in almeno due direzioni. In primo luogo, deve dare nuova
forza ai negoziatori nazionali nelle sedi europee: senza una rilevante spinta all’economia in Europa gli effetti permanenti del crollo della domanda, sulla capacità produttiva, saranno irreversibili. Inoltre, essa dovrebbe risollevare e condurre al centro dell’agenda politica regionale la discussione sulla politica industriale: non si può solo intervenire in modo
estemporaneo sulle difficilissime emergenze e sui singoli casi di crisi. Occorre lavorare – come si sta intensamente facendo in tutti i paesi avanzati – per rafforzare il tessuto delle imprese che hanno resistito, e per farne nascere di nuove; per favorirne la capitalizzazione e rafforzarne le risorse umane; per accompagnarle all’estero e stimolare in ogni modo i
processi innovativi. La competizione non è persa ma comincia a consolidarsi l’impressione che quello che abbiamo di fronte sia con ogni probabilità l’ultimo treno.
Francesco Prosperococco